Astrazione, figurazione, naturalismo e degenerazioni.
Contraddizioni programmatiche e di criterio di giudizio.

ASTRAZIONE

Il termine astrazione deriva dal latino abstractio che a sua volta viene dal greco αφαίρεσις (aphàiresis). In senso generico l’astrazione è il procedimento del pensiero per il quale si isola un elemento da quelli a cui era connesso e lo si considera come particolare oggetto di ricerca.

Considerando accettabile questa definizione si potrebbe affermare che il procedimento astrattivo implica un approccio analitico verso il reale, in quanto il soggetto seleziona e isola determinati aspetti della realtà fenomenica e oggettuale. Credo che questa esplicazione possa essere accettata e applicata anche nella pratica artistica e, nel caso che ci riguarda più da vicino, nella pittura cosiddetta figurativa.

Ogni frammento di mondo, nel momento in cui viene selezionato e comunicato, implica a sua volta un’idea nella quale viene categorizzato. In sostanza è possibile avere un approccio analitico al reale in cui ogni porzione selezionata viene delimitata e isolata dal resto per essere compresa e considerata come mondo a sé stante e di conseguenza concepire una sintesi di quella porzione.

Nella nostra vita quotidiana però il buon senso ci porta ad avere un primo e immediato approccio sintetico verso le cose del mondo. Ad esempio: vediamo istantaneamente una bottiglia e la riconosciamo come tale, sottoponendola in seguito ad una eventuale analisi più approfondita. Ma prima di riconoscerla istantaneamente, senza che ce ne rendiamo conto, il nostro cervello analizza in minuscole frazioni di secondo gli elementi che la compongono al fine di ricostruirne l’idea nella nostra mente per mezzo di associazioni e con l’aiuto della memoria.

Ogni tecnica e procedimento artistico, a partire dell’ideazione e durante l’esecuzione, può realizzare un’interpretazione soggettiva necessariamente di uno o più aspetti definiti della realtà.

Gli artisti, più o meno consapevolmente, è come se percepissero una certa insufficienza della realtà fenomenica. E questa necessità di trascendere le cose, che può assumere spesso dei tratti angoscianti, può manifestarsi in diversi modi.

La realtà necessita quindi di essere continuamente inventata e immaginata dal pensiero a causa di questa angosciante insufficienza delle singole parti che la compongono, e proprio perché essa viene continuamente rappresentata e restituita per mezzo del linguaggio soltanto in minuscole e quasi insignificanti porzioni..

FIGURAZIONE

Da queste brevi premesse generali credo sia possibile affermare che nella pittura la figurazione non consiste in altro se non nella descrizione, per mezzo di figure, di situazioni reali o ipotetiche sempre mediante una “invenzione” di forme che definiscono oggetti. Questi ultimi rappresentati all’interno di una narrazione in immagini possono alludere ad una qualche idea più generale e sintetica per mezzo di simboli. La pittura figurativa rappresenta la realtà astraendone gli oggetti e selezionando parti del mondo ben delimitate concettualmente e fisicamente. Il particolare carattere dei segni che si utilizzano per creare le forme con le quali definire gli oggetti rappresentati ha una natura forse solo in parte convenzionale, alla quale diamo un significato al fine di orientarci nel labirinto della forme che costituiscono le cose. Una linea retta e nitida, in quanto ente geometrico, può essere carica di significati tratti da una sintesi visiva di un particolare aspetto di un dato naturale, ad esempio l’orizzontalità o la verticalità (l’orizzonte del mare o la verticalità degli alberi e delle piante, o la stessa stazione eretta degli esseri umani). Una linea tremolante o una macchia potrebbero derivare da una maggiore consapevolezza visiva di tutto ciò che sfugge ad un’eccessiva semplificazione geometrica, rappresentando per similitudine un aspetto dell’apparenza organica degli elementi naturali. Alle forme e ai segni della pittura attribuiamo quasi sempre significati che alludono all’infinità delle forme della natura visibile e per mezzo di analogie ne deduciamo le somiglianze.

NATURALISMO

La rappresentazione pittorica di oggetti reali avviene sempre per mezzo dell’invenzione come riproduzione necessariamente imperfetta rispetto al modello di riferimento, in quanto la copia esatta di qualcosa risulta essere semplicemente insostenibile dato che ogni oggetto è sempre e comunque differente. L’intento “programmatico”, potremmo dire ideologico, di riprodurre o copiare la realtà appare più come un’ingenuità e una rincorsa senza fine del vero o come un diletto e un’ostentazione performativa di una capacità acquisita per mezzo di convenzioni linguistiche, teoriche e tecniche accettate dai più come presupposti essenziali di valore.

É vero che c’è chi si avvicina e chi si allontana dalla riproduzione dell’apparenza delle cose, ma il punto è la vera motivazione che spinge a farlo. Pensare di far sembrare reali gli oggetti con la pittura per mezzo del naturalismo (e fare di ciò lo scopo della ricerca artistica) è una pretesa infantile carica di residui di comportamenti ancestrali e primitivi caratterizzati psicologicamente dalla forte attrazione per tutto ciò che sembra vero e che non lo è. In questo caso, il pittore e il fruitore di questo genere di immagini si pongono sullo stesso piano. Il primo sa che il secondo rimarrà stupefatto dell’illusione del vero nell’immagine dipinta, il secondo si sarà compiaciuto del virtuosismo fine a se stesso del primo. Infatti, solitamente, la prima reazione del fruitore superficiale e sprovveduto è quasi sempre di meraviglia di fronte ad un oggetto dipinto che sembra vero, quindi che sembra un altro da sé ma che in qualche modo è pur sempre esso stesso. E ciò accade quasi esclusivamente nell’ambito delle arti tradizionali della pittura e della scultura. Il motivo? Molto semplice: la realizzazione manuale. Qual è il criterio di giudizio che porta a questo genere di approccio? Il criterio in questione non è sbagliato in sé, ma non viene utilizzato nel giusto ambito: ovvero il criterio di giudizio scientifico, per somiglianza e comparazione. Ci deve essere sempre qualcosa con il quale paragonare l’oggetto prodotto (il quadro) o la rappresentazione dentro questo oggetto (il soggetto raffigurato). Infatti si può assistere di frequente alle classiche esclamazioni di coinvolgimento quali: “È somigliante!” come nel caso di un ritratto dipinto, o peggio “Sembra una fotografia!”. Tutte esclamazioni di entusiasmo allo scopo di fare un complimento al pittore (che quest’ultimo lo apprezzi o no non è molto importante). Se non si ha un termine di paragone col quale identificare l’imitazione dell’oggetto in questione si è quasi totalmente incapaci di giudicare. Pare che sia necessario avere un riferimento chiaro per poter dire se l’imitazione dell’oggetto è giusta o sbagliata. Nell’ambito artistico appare strano se non inutile chiedersi qual è il modello di riferimento per poter valutare l’imitazione. Forse sarebbe più opportuno contrapporre, anche se non in maniera troppo limitante, al cosiddetto giudizio scientifico (inteso psicologicamente come approccio) quello poetico ( estetico ed emotivo, con il quale non si compara ma si prende atto). Quindi che fare? Sospendere il giudizio? In un certo senso sì, almeno dal punto di vista tecnico-esecutivo: quando si guarda un film, di sicuro non ci si sofferma sull’imitazione, infatti nei casi in cui ci si sofferma sulla resa naturalistica di solito ci troviamo di fronte a film ricchi di effetti speciali finalizzati a rendere reali situazioni irreali (ed è proprio questa situazione di irrealtà che ci fa notare l’effetto naturalistico, effetto che non noteremmo in un film che racconta e rappresenta scene plausibili). Il naturalismo dovrebbe essere il mezzo per raccontare o alludere, non il fine ultimo da contemplare.
Il giudizio di comparazione di una pittura rispetto all’oggetto fotografia (e dato il tempo in cui viviamo neanche più l’oggetto fotografia, ma in generale la resa fotografica) di solito viene applicato, spesso inconsapevolmente, anche nel momento in cui si giudica un dipinto per così dire convenzionale, paragonandone gli esiti a un genere affine del passato. Infatti giudichiamo una pittura naturalistica non solo rispetto alla fotografia (fatto inevitabile) ma anche rispetto a una pittura affine del passato. E ciò accade soprattutto nell’ambito della pittura classico-accademica revivalistica di stampo ottocentesco.

DEGENERAZIONI.
L’ACCADEMISMO REVIVALISTICO CONTEMPORANEO E IL PROCESSO PITTORICO PERFORMANTE

La bellezza diventa così “correttezza”, non rispetto a un ideale, ma rispetto alla somiglianza col suo modello reale o artistico: “è bello perché somiglia” (a una foto o a un dipinto antico) anche se in realtà magari non è bello per questo ma solo perché “si è arrivati ad un determinato scopo mediante un determinato procedimento manuale (allora qualsiasi fotografia scattata sarebbe bella perché corretta dal punto di vista ottico, ma non è così per il senso comune; o qualsiasi dipinto revivalistico di maniera sarebbe bello perché riproduce gli effetti di un determinato stile)”. La pittura accademica revivalistica di stampo ottocentesco può essere presa come esempio al fine di chiarirne l’anti-artisticità peculiare. Infatti questo nuovo genere contemporaneo, che si è ritagliato una buona fetta di mercato in una nicchia alto-borghese nostalgica, dagli effetti collaterali dai tratti estremamente pop e tipici della mid-cult verso la massa di dilettanti e cultori d’arte, sembra consistere più in una pratica sportiva anziché artistica. Il pittore neo-vittoriano infatti, come un vero e proprio atleta, accetta le regole del gioco: regole ovviamente già date e provenienti dall’esterno e che una volta rispettate per filo e per segno portano ad un risultato che “deve” essere prevedibile per lui e per chi lo giudica. La conformità ad uno stile storicizzato, caratterizzato da un forte e comprensibile naturalismo che permette di ostentare tutto il virtuosismo necessario ad ottenere il risultato “oggettivo”, permette infatti di utilizzare un doppio criterio di giudizio perfettamente inoppugnabile rispetto agli scopi prefissati a priori: l’opera somiglia a un quadro antico “fatto bene”, il soggetto è perfettamente “riconoscibile” in quanto lo scopo è il naturalismo della rappresentazione e, come se non bastasse, questi due risultati si ottengono rispettando ogni passaggio del procedimento tecnico dato a priori dalle regole del gioco. Ovviamente è assolutamente necessario ostentare il procedimento per arrivare a questo scopo: la ripresa video accelerata con conseguente pubblicazione sui social network è l’elemento portante dell’intera pratica. Ciò a dimostrare che lo scopo è proprio il processo per arrivare a quel risultato sicuramente incontrovertibile e accettato da tutti come canone. Da qui la contraddizione programmatica del “dipingere una certa idea di pittura”, e non una certa idea del mondo o delle cose.

Tutto questo credo sia riconducibile alla diffusa mancanza di capacità contemplativa. La mancanza di contemplazione è dovuta alla mancanza di volontà di sforzo immaginativo da parte del fruitore, e assecondato in questo dai pittori ingenui o in mala fede. Come qualsiasi altra disciplina oggi, la pittura ha carattere performativo e la ripresa video dell’esecuzione ne è la dimostrazione: è il processo che conta, è quello ciò a cui si vuole assistere. Il fine oggettuale che è già dato (il dipinto fatto prevedibilmente in un certo modo) si sovrappone al fine processuale nel suo svolgersi (l’ostentazione della procedura al fine di ottenere quel risultato). Insomma la fruizione estetica del processo artistico spettacolarizzato che colma il vuoto del fruitore mediante l’intrattenimento. L’immagine, l’oggetto, non significano più nulla se non in quanto fini da realizzarsi come pretesto per ostentare il processo.

Giuseppe Sciortino
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